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 G i o r g i o   R i g o n
saggi brevi  
Bel soggetto senza veli

     Il corpo svelato è una delle categorie più proficue e presti­giose dell’espressione artistica che ha sempre infiammato i di­battiti fra moralisti e cultori dell’arte, non tanto per semplice pruderie, quanto per la chiara consapevolezza dell’instabilità del nudo come categoria di produzione artistica, sovvertitrice dei tenui confini fra la legittimità dell’opera d’arte e la semplice raf­figurazione erotica.
     La storia della rappresentazione senza veli dimostra come la scelta di raffigurare il corpo svestito sia sempre stata privilegiata, da parte di artisti e dei committenti, sia per l’iconografia pro­fana sia per quella sacra. La prima trae ispirazione principalmente della mitologia antica, la seconda dai martiri e dei Santi cristiani che, per vicende della loro esistenza o per tradizione, possono essere visti nella loro nudità, a cominciare dalla passione di Cristo fino a San Sebastiano, dalla Maddalena fino alla ricca angelologia.
     È singolare come, pur nella castigata atmosfera instaurata dalla morale cristiana, si ravvisi in ogni epoca il compiacimento per la rappresentazione realistica od espressionistica del nudo, in par­ticolare dal Rinascimento in poi, e che le raffigurazioni nude del Salvatore, di certi Santi e di tutte le grazie Angeliche siano sem­pre state oggetto di particolare contemplazione e, addirittura, di ascesi mistica.
     Al di fuori dell’iconografia Sacra, sarebbe impossibile, in queste bre­vi note, anche solo accennare a tutte le concezioni espressive ed ai ruoli del nudo che la storia dell’Arte ha registrato; mi limito soltanto a considerare brevemente quanto è avvenuto dall’età vittoriana ad oggi, periodo storico che coincide proprio con quello della foto­grafia.
     Nei primi decenni del XIX secolo, Il nudo, pudicamente rarefatto o reso capriccioso dalle malizie dell’Arcadia, si afferma come soggetto artistico autonomo, attraverso appropriazioni stilistiche, dal Ri­nascimento veneziano e dal classicismo francese, e ribalta lo ste­reotipo d’una società ancora erede del puritanesimo. Uno stereo­tipo che, nell’identificazione di “vittoriano”, ci fa tuttora concepire la cultura inglese del XIX secolo come dominata da un’affetta­ta ed eccessiva castigatezza. In realtà, nella stessa società vittoriana, si adombra una sotterranea, morbosa attività, varia, sperimenta­le, abusiva, molto incline all’erotismo, nascosta magari da una sot­tile vena d’ipocrisia, ma che si esprime attraverso una custodia clan­destina e privata del nudo fotografico.
     Nella cultura europea degli ultimi decenni del XIX secolo, un nuovo, decisivo impulso alla raffigurazione aperta e pubblica del nudo è promosso dal revival della tradizione neoclassica, grazie al­l’estrema flessibilità dell’ideale antico che si presta a sostenere, oltre alle interpretazioni della mitologia e delle scene sacre, anche nuove emergenti visioni della mascolinità e della femminilità. Il prototipo del nuovo stile è “La sorgente” di Jngres: nudo ineffabilmente casto poiché convoglia in pittura le qualità formali della scultura: enfatizzazione delle linee e della superficie rispetto al colore ed alla suggestione narrativa.
     La diffusione del nudo d’ispirazione classica, cui la tradizione of­fre autorità e rilevanza, fu assolutamente determinante nella for­mazione del gusto del pubblico, contribuendo a liberare il nudo dalla “conchiglia protettiva del puritanesimo” fino a portarci al nudo moderno, urbano, definitivamente affrancato dal ricorso alla leggenda ed all’uso della classicità.
     Di quest’ultima tendenza, cito due esempi: il primo lo individuo nel­la Scuola Romana (Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli e Corrado Cagli) i cui nudi femminili e maschili ci appaiono semplificati ed ambigui, con presenza di elementi esoterici e psicanalitici, (Ca­valli aveva sposato la nipote di Edoardo Weiss, allievo di Freud e fondatore della psicoanalisi italiana). Il secondo esempio, più aper­to e popolare, ce lo offre lo scultore iperrealista John De Andrea con i suoi nudi femminili cui è conferita una forte carica di erotismo.
     Questo nell’Arte figurativa. Un po’ più difficile è stato raggiungere la legittimazione artistica del nudo nella tradizione fotografica, ove le immagini di corpi senza veli raggiungono un realismo impossi­bile in pittura.
     Se nella società di tipo vittoriano, in virtù dall’attività sportiva e competitiva dei contemporanei, lo standard normativo di rap­presentazione del nudo è quello maschile di un modello, esal­tato e confermato nella sua virile muscolosità, per il nudo fem­minile i fotografi sono costretti a trascendere il corpo vivente della modella o dell’attrice di varietà, considerate alla stregua di meretrici, e calare la figura femminile, bella e decorosa, nella rappresentazione simbolica di un luogo o di una leggenda, ricor­rendo ad ogni sorta di stilizzazione ed astrazione per sublimare l’imbarazzante realismo che rimane confinato nella sfera privata. Si trascorre così, da certe accattivanti rappresentazioni religiose del nudo, ai dagherrotipi pruriginosi di fine ‘800; dai fauni sici­liani di von Gloden, agli ambigui atleti di Leni von Riefensahl; dalla purezza formale dei nudi di Weston, alle delicate, evane­scenti giovinette di Hamilton, dai sensuali nudi maschili di Mappelthorpe, alle modelle culturiste di Newton.
     La nostra di oggi è una società esibizionistica. La gestualità pu­dibonda delle modelle, i vezzosi atteggiamenti volti a coprire al­cune parti del corpo, sono ormai stilemi del passato. Più la cul­tura dell’intrattenimento si nutre di indiscrezioni, più il nudo è richiesto ed accettato nelle sue forme più spontanee ed aperte. Quasi sempre, tuttavia, è solo l’erotismo ad improntare ogni esibizione di tipo fotografico, senza la pretesa di aspirare alla dimensione dell’Arte.
     Con la fotografia di nudo viviamo ancora in una contraddizione eccitante: da un lato la fruizione del corpo svelato come tra­sgressione ad un divieto sacrale, dall’altro come libera, naturale e sana aspirazione al ritorno ad uno stato primitivo.
     Il problema è che, accanto ad un momento liberatorio, ce n’è sempre anche un altro offensivo. E c’è modo di risolverlo? Sol­tanto nella sensibilità di ognuno di noi.
Giorgio Rigon
gi.rigon@virgilio.it
Bressanone, febbraio 2002