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 G i o r g i o   R i g o n

   Tempo fa, fra le tante sorprese della posta elettronica,mi è giunto un invito, da parte di un appassionato fotografo, a voler fornire una definizione di Fotografia,.
   Il quesito era formulato letteralmente in questi termini: “Che cos’è una fotografia? L’ho chiesto a tre esperti docenti che mi hanno risposto: -non lo so!-“.
   Il meccanismo della posta elettronica si presta a lanciare, con estrema disinvoltura, interrogativi elementari di questo tipo che si ammantano di un pizzico di provocazione. Anche se il mittente si firma regolarmente, come nel mio caso, rimane sostanzialmente defilato dietro l’indirizzo criptico dell’E-mail che non dà indicazioni sulla località di provenienza ma che, comunque, impone una risposta.
   D’acchito, si pensa che siffatto interrogativo poteva essere posto nel 1839 a Parigi da uno dei presenti alla relazione, in cui Arago, all’Accademia delle Scienze, invitava a prendere sul serio la fotografia che, fino ad allora, era ritenuta un giuoco sperimentale. Tuttavia l’apparente ingenuità della domanda mi ha fatto riflettere.
   Che cosa può essere successo di paradossale se, dopo 162 anni d’esperienze e di volgarizzazione del mezzo, si sente il bisogno di tornare all’elementarità di un quesito, come se la Fotografia fosse rimasta un mistero? E cosa può avere spinto tre esperti, se è vero che sono stati interpellati come me, a rispondere emblematicamente: “Non lo so”?
   Stimolato da questa strana situazione, ho risposto al mio quasi ignoto interlocutore in questi termini:
   “Al quesito si potrebbe rispondere che la fotografia è una rappresentazione ridotta, approssimata, circoscritta e simbolica della realtà [1].
   Definizione che, sul piano scientifico, non fa una piega ma che, nella sua aridità, non tiene conto degli aspetti emozionali che sono all’origine della decisione del fotografo di riprendere quel particolare stralcio della realtà in quel momento ed in quel modo.
   Esaminiamo le qualità di questa rappresentazione:
  • ridotta: la riduzione in scala della realtà rimane una caratteristica peculiare della fotografia, anche se il gusto per la gigantografia e per la macro possono avere attenuato quest’aspetto;
  • approssimata: nata come fortemente approssimata, sia per l’iniziale caratteristica del bianco e nero sia per le deformazioni prospettiche e dello sfuocato, gradualmente ha perso molto di questa caratteristica fino a divenire quasi uno specchio fedele del dato visivo, in virtù dell’evoluzione tecnologica che ha sempre teso alla massima definizione ed alla mimesi con il mondo reale;
  • circoscritta: nel senso che, rispetto alla visuale umana, lo spazio di realtà prescelto per la sua rappresentazione, è rigorosamente racchiuso nei limiti di un parallelogramma al di fuori del quale non può espandersi quella che, nell’efficace linguaggio popolare, si chiama <la coda dell’occhio>;
  • simbolica: con questo termine s’indica l’attitudine e l’orientamento dei fotografi della prima ora a ricalcare gli stilemi delle arti figurative che, ricordo, all’epoca della nascita della fotografia, erano fortemente legati all’idealizzazione simbolica della realtà. Idealizzazione e stilizzazione perseguite affinché la fotografia fosse considerata <in odore d’arte>.
   Se, un secolo e mezzo fa, un curioso del nuovo linguaggio avesse mosso il quesito – che cos’è la fotografia – se la si poteva cavare con la succitata definizione.
   Oggi la risposta non può più essere così arida e semplice, ed i motivi non sono da ricercare nel progresso tecnico e nell’evoluzione del mezzo, bensì nella dimensione sociale che, nel frattempo, la Fotografia ha assunto.
   I grandi fotografi del XIX secolo erano legati, come già accennato sopra, all’iconografia dell’Arte del tempo, molti erano pittori (Nadar, Michetti ecc.), in ogni caso erano l’elite della cultura che, dall’alto della superiorità intellettuale e spirituale, imponeva al pubblico il proprio gusto ed i propri stilemi chiamati, appunto, pittorialisti.
   Ecco che alla definizione di cui sopra dovrebbero essere aggiunte le qualità della stilizzazione e dell’idealizzazione. Con l’avvento del <Verismo> la fotografia scoprì un’altra vocazione (mi piace qui ricordare lo scrittore verista Giovanni Verga, le cui fotografie, poco conosciute oggi, documentano la condizione degli umili, anticipando il realismo di Heine, dei fotografi americani del primo ‘900 fino al moderno fotogiornalismo). Da quel momento le caratteristiche di approssimazione, di simbolo, di riduzione diventano irrilevanti e si perdono anche le qualità idealizzanti e stilizzanti, rendendo la definizione iniziale assolutamente inadeguata, anzi, deviante.
   Con il prepotente avvento dei media, (siamo ai giorni nostri), la fotografia diventa patrimonio popolare. La prima conseguenza di ciò è che oggi non è più l’elite intellettuale e dell’arte ad imporre gusti estetici e stilemi, bensì la massa le cui capacità percettive si plasmano sul gusto estetico più elementare, esigendo che la fotografia soddisfi alle istanze di conoscenza immediata e superficiale della realtà fenomenica e sociale, senza complicazioni di carattere concettuale, stilistico, simbolico. La fotocamera tradizionale, nell’ambito della massa, è sostituita dalle videocamera, più idonea a rappresentare il divenire degli accadimenti e meno atta a promuovere la riflessione e la lettura critica.
   Chiedersi -che cos’è una fotografia- è più che mai condurre un esame della propria coscienza critica. Porsi il quesito del perché una fotografia singola, in bianco e nero, spesso assume l’aura dell’oggetto d’arte, vuol dire aver posto questa, istintivamente, a confronto con le sequenze filmate o con le immagini di consumo, della moda, dei beni acquistabili e delle mete turistiche che oggi ingombrano la nostra vita quotidiana.
   A fare la differenza tra i documenti unici attraverso i quali i grandi fotografi hanno storicizzato gli eventi e le attuali ridondanze iconografiche richieste da quell’enorme committenza che è la massa, sono proprio le dimenticate caratteristiche del ridotto dell’approssimato, del circoscritto e del simbolico, che, nell’ottica della moderna semiologia, possiamo oggi chiamare: peculiarità concettuali.
   In definitiva, anche sul piano emozionale, c’è più soddisfazione a realizzare ed a contemplare una fotografia che rappresenta il momento culminante d’un evento dinamico, unico ed irripetibile (alla Cartier Bresson) che non a perdersi nella visione passiva di un filmato iperdescrittivo o di un reportage di costume.
   Ecco come definirei la fotografia ideale al giorno d’oggi: un simulacro di realtà od anche una sua traccia, istintivamente ripresa sull’onda di un’emozione, che offra quel tanto di approssimato, di simbolico, d’indefinito e di aperto alla libera interpretazione dei singoli lettori. Un’interpretazione che non sia obbligatoriamente univoca bensì soggettiva, adeguata alla sensibilità estetica ed ai diversi livelli d’esperienza di ciascuno.” [2].
Giorgio Rigon
gi.rigon@virgilio.it

Bressanone, maggio 2001


[1]                 Locuzione dottrinale con cui, scientificamente, sono definite le Carte Geografiche e Topografiche.

[2]               Non so se il mio quasi sconosciuto interlocutore è rimasto soddisfatto della risposta. Non ne ho ricevuto alcun riscontro.