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 G i o r g i o   R i g o n

Nella fase iniziale del tuo percorso mi sembra che ci sia una ricerca in senso sequenziale quasi cinematografico (“Il Rancore 1975) con un relativo montaggio. In una fase successiva queste sequenze acquistano un ritmo più accelerato, “Assimilazione pop” 1989 e “Improvviso Fugato” 1995, dove lo zoom arriva a smaterializzare il soggetto per giungere ad una sintesi del movimento.

Il ritmo sequenziale è sempre stato al centro della mia attenzione, l’ho sempre considerato come elemento primario ai fini della stesura formale delle composizioni. La frammentazione delle immagini, ed il successivo riavvicinamento delle parti, sono divenuti stilema ricorrente cui mi studio di conferire un senso armonico, non necessariamente cronologico.
In questo, le mie presentazioni articolate differiscono dalla sequenza cinematografica di tipo temporale. Può sembrare strano, ma le forme vibratili e sfatte di “Assimilazione Pop” e di “Improvviso Fugato”, realizzate su base spazio-tempo, non chiedono di essere percepite in modo diverso dall’icastica e immobile struttura di “Rancore”.
Le motivazioni di questo procedere le attribuisco alla volontà di dichiarare apertamente e sempre che quanto rappresento con la mia fotografia non documenta uno o più momenti della realtà oggettiva, ma è la sintesi concettuale di un evento senza tempo, svincolato da ogni limite spaziale. Sovente, infatti, assieme al ritmo, s’interrompe anche la figura.

Concordo pienamente con te quando parli di svincolarsi dalle limitazioni spaziali, ma vorrei che tu mi chiarissi come Intendi il rapporto tempo/immagine, tempo/evento.

Allorquando riprendo un evento provo una tensione altissima.
I miei soggetti sono mutevolissimi e fugaci; vivo intensamente il momento e m’immedesimo in quel tempo ed in quello spazio. Però, dopo le operazioni di sviluppo del negativo, lascio sedimentare a lungo il materiale, quasi per allontanarmi dall’emozione iniziale.
Dopo un certo tempo esamino nel dettaglio le forme catturate attraverso una lente contafili (non stampo mai provini a contatto poiché voglio valutare con la massima precisione le caratteristiche di densità, granulometria, contrasto, direttamente sul negativo): se si rinnova il pathos iniziale, il che succede raramente, decido che qualcosa di quelle forme merita di essere salvato.
Subentra allora una prolungata fase di studio tesa ad astrarmi da quell’hic et nunc cui, inequivocabilmente, l’osservazione del negativo mi riporta. Scelgo, perciò, la metodologia più idonea da adottare affinché la forma sia sottratta da quel contorno di realtà in cui è immersa e che “chiacchiera troppo”.
Il mio è un processo di isolamento, di stilizzazione, di monumentalizzazione che realizzo attraverso tecniche ed attrezzature da me inventate e costruite -di cui vado particolarmente orgoglioso- fino a che il mio soggetto perde la propria identità ed ogni riferimento allo spazio ed al tempo per divenire latore di un concetto universale.
Nel processo di stampa, di norma, opero in modo che il mio oggetto d’affezione si stagli su fondo bianco oppure su di un rettangolo grigio tenue ed uniforme, fino ad essere percepito come un evento senza tempo, un “Oggetto Trovato” di duchampiana memoria. Le immagini che seguono costituiscono un esempio chiarificatore del mio concetto:

(la foto a sinistra è una stampa priva di elaborazione; la foto a destra è la composizione finale stilizzata ed elaborata).
Le foto da esposizione sono nel formato 30x40 cm, stampate su cartoncino fotografico. Per le stilizzazioni e le elaborazioni non ho mai utilizzato tecniche digitali.

Parte dei tuoi lavori è strutturata in dittici, trittici e polittici secondo, però, una sequenza simbolica/concettuale che si potrebbe paragonare nuovamente ad una sequenza cinematografica, ma, questa volta, di avanguardia russa, quindi non basata sulla stessa poetica dei lavori sopra citati.

È una gradita sorpresa il riferimento all’avanguardia cinematografica russa, non ci avrei mai pensato, e trovo lusinghiero l’accostamento.
In realtà i complessi articolati in dittici e polittici sono studiati in modo da creare degli enigmatici rapporti tra simboli; cerco, tuttavia, di evitare che questi accostamenti orientino verso la ricerca di significati metaforici; considero, infatti, l’eventuale individuazione di una metafora come un momento riduttivo e conclusivo della lettura che preclude qualsiasi altra interpretazione.

Guardando le tue sequenze fotografiche ho notato che, a volte, usi le stesse immagini in differenti lavori. L’immagine èun segno iconico legato ad un referente. Nel tuo caso mi pare, invece che sia più trattata come codice con un cambiamento del significante.

È proprio così come dici. I miei segni fanno parte di un vocabolario ridotto a poche parole, sono ideogrammi di una scrittura mia personale che, tuttavia, non è mai criptica. Spesso i calli-grammi si ripetono in diverse composizioni, accostati in vario modo per esprimere diversi concetti semplici, non enigmi, sono forme che s’intrecciano come le iniziali di un nome a formare un monogramma o quelle di due nomi a designare una coppia, e così via...

La linea, il segno sono elementi fondamentali nel tuo lavoro. Alcuni dei tuoi lavori sono intitolati ideogrammi, monogrammi. Qual è il tuo rapporto fra segno grafico, scrittura basata su codici e segni iconici/immagini?

L'unica guida nella mia ricerca del segno è la sensualità. Di fronte alla gestualità spontanea della figura femminile entro in uno stato di tensione altissimo e, insieme, provo un forte desiderio di sublimazione.
Il potere sensuale della donna, lo trovo espresso non nell’insieme della figura, pure fascinosa, ma in un frammento, in una semplice, armonica movenza casuale, non controllata, in una parte per il tutto che diventa sineddoche’ visiva (dove sta scritto che la sineddoche è una figura retorica soltanto letteraria?).
Il mio atto di ripresa fotografica è sempre istintivo, furtivo, casuale. Soltanto così mi piace catturare i segni. Se il soggetto èconsapevole della mia attenzione, il mio segno si svilisce e si cristallizza in un’immobilità innaturale, peggio che mai se fosse in sala di posa, perciò rifuggo da quest’ultima. Inseguire una linea armonica è un’avventura coinvolgente.
Poi vi è il momento della riflessione e dello studio delle forme catturate; avviene sempre nella camera oscura, ove i segni sono estrapolati dal contesto casuale che li circonda, stilizzati e monumentalizzati con tecniche da me inventate e per mezzo di attrezzature da me costruite, di cui vado orgoglioso, diventano ideogrammi, monogrammi, pura forma, tracce esili di una realtà che acquista grazia e sensualità.
Una sola volta ho tradito il mio femminile oggetto d’affezione. Fu davanti ad una vecchia serra ligure dove lo stelo di una rosa proiettava la propria ombra sul vetro rozzamente imbiancato di calce: era l’ombra ad apparirmi sensuale, non la rosa, come è la traccia fugace delle gambe femminili che rimane nella mia pellicola ad apparirmi sensuale, non la fisicità delle gambe.
Quando parli di atto di ripresa fotografica istintivo, furtivo e casuale sottintendi forse che in questa fase del tuo lavoro non c'è progettualità, che è una sorta di caccia fotografica? Se, invece c'è una progettualità, come riesce a convivere con l’istintività?
Ai termini “istintivo” e “casuale” mi è, infatti, molto difficile associare l’idea di progettualità, se mai quella di un’avventura della quale non si può prevedere l’esito finale.
Il progetto ha inizio allorquando, dalla cospicua massa delle diverse visioni catturate e registrate su negativo, scelgo più forme che coinvolgono maggiormente la mia fantasia, stabilisco in quale rapporto reciproco articolarle, mi studio di conferire alla composizione un ritmo armonico ed unitario.



Nella cattura di tipo furtivo, invece, può esserci un intento di progetto, ad esempio: se al mercato mi pongo nelle vicinanze di una bancarella di costumi da bagno, è prevedibile che, prima o dopo, una fanciulla si produca nei gesti funzionali a misurare disinvolta-mente un capo di quell’abbigliamento sul proprio corpo.
Pur nell’imbarazzo e nella difficoltà oggettiva di sottrarsi all’osservazione di estranei durante l’espletamento di quest’atto intimo, di solito, ella non rinuncia a quelle movenze aggraziate che accompagnano l’osservazione e la considerazione del proprio corpo in rapporto con l’indumento. Allora è evidente che nel mio progetto, a priori, c’è l’idea di collezionare furtivamente i segni armonici di una gestualità rituale, spontanea, non controllata.

Hai dei territori fotografici preferiti o ti lasci guidare dall’istinto? Generalmente porti sempre o spesso con te la macchina fotografica o segui un’ispirazione?

Sono un ostinato abitudinario. Mi affeziono ad un luogo che eleggo come topos sito privilegiato che cattura per lunghi anni la mia attenzione.
Negli anni ‘60, per motivi professionali, mi recavo spesso a Roma ed i miei momenti liberi li trascorrevo in Piazza Navona. Vi era un atmosfera in quella piazza che odorava d’ideologie estreme, di trasgressione, d’eversione nei confronti del potere. I giovani che vi si radunavano improntavano il loro comportamento a rituali caratteristici di una determinata ideologia; era difficile entrare in comunicazione con loro ma, nello stesso tempo, era facile e stimolante penetrare la loro mentalità.
La mia attenzione di fotografo, già da allora, s’incentrava sulle giovani donne, spesso dallo sguardo protervo, belle nella loro alterigia, seducenti nel loro abbigliamento fortemente caratterizzato da una moda tutta loro.
Alla fine degli anni ‘70 scoprii che a Ventimiglia c’era uno dei più grandi mercati di bancarelle d’Europa. Da quel momento, ogni venerdì estivo, lo trascorro li aggirandomi furtivo tra la gente, passando inosservato e ponendomi nell’atteggiamento ricettivo con pazienza, talora con aggressività, sempre attento a cogliere dettagli e frammenti di vita che esprimano sensualità.
Allorquando qualche circolo fotografico m’invita a condurre dei workshop, chiedo sempre di organizzarli in qualche mercato. I più interessanti li ho trovati a: Rimini, Ferentino (FR), Valenza Po, Faenza, Sarnico e, naturalmente, Trastevere.
C’è stato un breve periodo che le circostanze mi hanno portato ripetutamente nei paesi del Magreb. Solitario, mi recavo in bicicletta nei villaggi più sperduti, al di fuori degli itinerari turistici. Mi sono appassionato alla cultura islamica. Ho studiato con grande interesse il Corano.
La mia attenzione, anche in quei luoghi, era catturata dalle figure femminili, così umbratili, sfuggenti. Era moralmente riprovevole catturarne il sembiante. Eppure sono riuscito a condurre un discreto studio fisionomico sulla donna musulmana, con la quale mi è parso di entrare in una relazione d’empatia tutta spirituale. Al di fuori di quei luoghi eletti e di quelle circostanze, non porto mai al seguito la fotocamera.

Usando una tecnica di stampa a toni alti alcuni particolari del soggetto finiscono per dissolversi. Su alcune di queste parti intervieni poi con sottolineature fatte di segni spezzati. Qual è la matrice concettuale di questo procedimento?

È contro la mia natura schematizzare, tuttavia c’è stato un momento in cui ho ritenuto opportuno buttar giù, nero su bianco, il mio modo di rappresentare le linee armoniche, così ho concepito la locuzione: “Geometria morbida” che, anche se non so l’inglese, tradurrei in “Soft Geometry”; concetto che, di seguito, cerco di sintetizzare:
  • SOFT: associo a questo termine l’idea di morbidezza, leggerezza, trasparenza, evanescenza, fugacità, flessuosità, aderenza, luminosità;
  • GEOMETRY: inteso come luogo dei segni artificiali (creati dall’uomo) attraverso i quali si conferisce alla donna gran parte del potere di seduzione, ed è mutevole con la moda. I segni possono essere: armonici, grafici, simbolici, stilizzati, convenzionali, decorativi, astratti.
In quasi tutte le mie fotografie cerco di associare sempre la componente “Soft” (parte viva e corporea della figura femminile), con una componente “Geometry”, curando che quest’ultima appaia con gran vigore e toni forti per evidenziare il contrasto con le parti delicate ed evanescenti delle linee femminili. Laddove la componente “Geometry” è poco evidente, la integro con i segni a china spezzettati.
Questa sovrastruttura grafica ha sempre un andamento curvilineo, integra la linea armonica della composizione, può suggerire una direzione di lettura.

So che sei molto legato alla pittura moderna, pensi che quest’interesse in qualche modo influisca sulle tue opere e, se così, in quale maniera?

I riferimenti ai movimenti estetici degli ultimi 150 anni, rappresentano, assieme a quelli della letteratura, una continua tentazione: c’è un Dada che mi guida negli accostamenti casuali, un Pop che mi fornisce continui stimoli a realizzare forme d’evidenza immediata, percepibili, ad ogni livello di sensibilità estetica e di cultura, c’è un Futurismo che m’indirizza nella creazione delle linee di forza, infine c’è la poetica del Postmoderno che m’impone la presenza del passato, delle dimensioni mitologiche e mi apre un labirinto di riferimenti, di modelli linguistici e di stimoli iconici. La mia cura, in ogni modo, rimane sempre quella di evitare la pedissequa e superficiale imitazione di stilemi puramente formali mutuabili dalla pittura; per questo sento poco il fascino dell’Impressionismo, del Surrealismo, dell’Espressionismo astratto, ecc., così facili da saccheggiare, così inutili nella loro banale riproponibilità.

Riegl parla dell’Einfuhlung (empatia) che si stabilisce tra architettura e uomo portandolo a respirare con la struttura. Gambe come colonne che sostengono...

Colonnato.
C’è un “Colonnato” tra le mie composizioni realizzato mediante l’indefinita reiterazione di armoniose linee di gambe femminili stilizzate, c’è l’ossessiva reiterazione d'una forma, come nel Pronao classico circondato da colonne.
Il processo d’empatia, in quel caso, non è avvenuto nei confronti del mio soggetto, con il quale mai mi sono trovato a tu per tu, l’Einfuhlung l’ho instaurato direttamente con il più vivace simbolo della sensualità e dell’erotismo.
Quel colonnato, infatti, non è la performance di una singola, bene identificata fanciulla che muove un passo dopo l’altro nello spazio, bensì l’opera architettonica disegnata fin dall’antichità da quel mirabile “strumento universale” rappresentato dalle gambe femminili che François Truffaut definisce: “Il compasso con cui si misura l’armonia del mondo”.

Giorgio Rigon & Cinzia Busi Thompson
gennaio 2004


(*) Intervista pubblicata sulla monografia dedicata a Giorgio Rigon, edita dalla FIAF, Torino, 2004.