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 G i o r g i o   R i g o n

    Quel brivido di paura, curiosamente ricercato quando si era impazienti che il racconto fiabesco ci fosse ripetuto mille volte, é una sensazione che, con l’età, abbiamo smarrito.
    Nella penombra della sera, prima di addormentarci, assorbivamo la poetica dell'horror attraverso i racconti reiterati della nonna, confortati dalla consapevolezza che un immancabile lieto fine avrebbe placato le nostre inquietudini.
    Certo si trattava di un horror a dimensione di bambino, un’esperienza emotiva primaria e fondamentale, una sensazione indotta ad arte che, in virtù del riscatto finale da parte delle , c’illudeva sulle prospettive sicuramente serene della nostra vita.
    Il sentimento della paura ognuno di noi l’ha sperimentato attraverso due precise entità, entrambe assurte alla dignità di categorie estetiche e mitologiche: il bosco, luogo reale, visibile, indefinitamente esteso, sito essenziale delle nostre esperienze conoscitive, e un essere fantastico che trascorre dall’identità di Strega cattiva a quella di Fata buona.
    È la presenza di quest’ultimo soggetto ad animare il bosco, a trasmettergli, assieme alle creature che in esso palpitano, parte dei suoi poteri. Il bosco, concepito come scenario proteiforme della fiaba, ospita l’essere fantastico, ne è dominato, diventa topos unico ed insostituibile d'una presenza irreale da cui assorbire il mistero, amplificandolo nelle sue performances d’incanto e di terrore.
    Proviamo ad immaginare una strega al di fuori del suo bosco naturale; non è più una strega, ma un suo alter ego dimesso, i cui malefici sono destinati ad un esito incerto, se non fallimentare; persino i suoi immondi congiungimenti con il Maligno sarebbero impensabili.


    Ecco che un elemento della natura fortemente caratterizzato ed un essere immaginario divengono, nel racconto o nella rappresentazione figurata, “due espressioni indissolubilmente connesse di quell’unicum fatto di razionalità e fantasia, di calcolo e di pulsioni che altro non è che il nostro cervello, misura terrena di tutte le cose, persino dei nostri terrori ed orrori quotidiani”.    Mi domando se il sentimento del terrore, che oggi si presenta come una chiave di lettura di tutti gli ambiti della vita quotidiana, (dai rapporti sociali al sesso, dall’informazione al catastrofismo, dal viaggiare alla malattia), non concorra a far sì che l’esperienza emotiva infantile perda la sua qualità di categoria particolare, per sminuzzarsi in altre categorie estranee alla poetica degli esordi.     E se l’horror possiede ancora una dimensione poetica, il terrore certamente no.
    All’origine dell’horror c’è un racconto basato essenzialmente sulla presenza di esseri, non spiegabili sulla base della nostra conoscenza, che ispirano stati momentanei, misti di repulsione e di attrazione, di timore e di curiosità, soprattutto nel recettore infantile.
    Nella sensazione del terrore, invece, gli effetti raccapriccianti derivano da fatti perfettamente spiegabili sulla base delle nostre conoscenze razionali, dei traumi della vita, della fenomenologia degli umani comportamenti, delle psicologie distorte. Per questo il terrore è persistente e invincibile: (terremoti, catastrofi naturali, contaminazioni del nucleare...).
    Stabilito così una sorta di confine tra l’horror della nostra infanzia e le angosce d’oggi, viene più facile, e storicamente più attendibile, inquadrare il fenomeno fiabesco.
    Epoche, periodi e tendenze hanno influenzato questo particolarissimo modo di poetare e di spaziare al di fuori della realtà, provocando emozioni diverse per intensità, ma sempre riconducibili alle inquietudini che, in vari momenti storici, hanno tormentato l’animo umano.
    La fiaba, tramandatasi di generazione in generazione sotto forma di poetica orale, ha poi trovato i suoi mentori nella letteratura, per arrivare, finalmente, al controllo da parte del Cinematografo. Quest’ultimo strumento espressivo, articolando in sequenze l’orrifico fiabesco, perpetua, integrandola, la poetica delle nonne ma ne stravolge la natura, col suo delineare sembianze ed eventi in forme precise e col suo sostituire, alla primordiale aura di mistero, un’iconografia dinamica che mortifica la fantasia.
    Perché allora non affidare anche alla Fotografia il compito di creare i simboli di una nuova mitologia fiabesca, associando gli arcani della seduzione femminile al loro connaturato topos del bosco?
    Tra le forme dei linguaggi moderni, la Fotografia, segnatamente in bianco e nero, è quella che più si presta a descrivere meno ed a suggerire di più, a sovrapporre all’aura della leggenda l’eleganza grafica del suo segno, a delineare, con poche, icastiche figure, vicende di sogno che l’immaginazione individuale potrà sviluppare e portare a compimento.

Bressanone, 10 agosto 1998