Tempo fa, fra le tante
sorprese della posta elettronica,mi è
giunto un invito, da parte di un appassionato fotografo, a voler fornire una
definizione di Fotografia,.
Il quesito era
formulato letteralmente in questi termini: “Che cos’è una fotografia? L’ho
chiesto a tre esperti docenti che mi hanno risposto: -non lo so!-“.
Il meccanismo della posta
elettronica si presta a lanciare, con estrema disinvoltura, interrogativi
elementari di questo tipo che si ammantano di un pizzico di provocazione. Anche
se il mittente si firma regolarmente, come nel mio caso, rimane sostanzialmente
defilato dietro l’indirizzo criptico dell’E-mail che non dà indicazioni sulla
località di provenienza ma che, comunque, impone una risposta.
D’acchito, si pensa che siffatto interrogativo
poteva essere posto nel 1839 a Parigi da uno dei presenti alla relazione, in
cui Arago, all’Accademia delle Scienze, invitava a prendere sul serio la
fotografia che, fino ad allora, era ritenuta un giuoco sperimentale. Tuttavia
l’apparente ingenuità della domanda mi ha fatto riflettere.
Che cosa può essere successo di paradossale se,
dopo 162 anni d’esperienze e di volgarizzazione del mezzo, si sente il
bisogno di tornare all’elementarità di un quesito, come se la Fotografia fosse
rimasta un mistero? E cosa può avere spinto tre esperti, se è vero che sono
stati interpellati come me, a rispondere emblematicamente: “Non lo so”?
Stimolato da questa strana situazione, ho risposto
al mio quasi ignoto interlocutore in questi termini:
“Al quesito si potrebbe rispondere che la
fotografia è una rappresentazione ridotta, approssimata, circoscritta e
simbolica della realtà
Definizione che, sul piano scientifico, non fa una
piega ma che, nella sua aridità, non tiene conto degli aspetti emozionali che
sono all’origine della decisione del fotografo di riprendere quel particolare
stralcio della realtà in quel momento ed in quel modo.
Esaminiamo le qualità di questa rappresentazione:
-
ridotta: la riduzione in scala della realtà
rimane una caratteristica peculiare della fotografia, anche se il gusto per la
gigantografia e per la macro possono avere attenuato quest’aspetto;
- approssimata: nata come fortemente approssimata,
sia per l’iniziale caratteristica del bianco e nero sia per le deformazioni
prospettiche e dello sfuocato, gradualmente ha perso molto di questa
caratteristica fino a divenire quasi uno specchio fedele del dato visivo, in
virtù dell’evoluzione tecnologica che ha sempre teso alla massima definizione
ed alla mimesi con il mondo reale;
- circoscritta: nel senso che, rispetto alla
visuale umana, lo spazio di realtà prescelto per la sua rappresentazione, è
rigorosamente racchiuso nei limiti di un parallelogramma al di fuori del quale
non può espandersi quella che, nell’efficace linguaggio popolare, si chiama <la
coda dell’occhio>;
- simbolica: con questo termine s’indica
l’attitudine e l’orientamento dei fotografi della prima ora a ricalcare gli
stilemi delle arti figurative che, ricordo, all’epoca della nascita della
fotografia, erano fortemente legati all’idealizzazione simbolica della realtà.
Idealizzazione e stilizzazione perseguite affinché la fotografia fosse
considerata <in odore d’arte>.
Se, un secolo e mezzo fa, un curioso del nuovo
linguaggio avesse mosso il quesito – che cos’è la fotografia – se la si
poteva cavare con la succitata definizione.
Oggi la risposta non può più essere così arida e
semplice, ed i motivi non sono da ricercare nel progresso tecnico e
nell’evoluzione del mezzo, bensì nella dimensione sociale che, nel frattempo,
la Fotografia ha assunto. I grandi fotografi del XIX secolo erano legati,
come già accennato sopra, all’iconografia dell’Arte del tempo, molti erano
pittori (Nadar, Michetti ecc.), in ogni caso erano l’elite della cultura che,
dall’alto della superiorità intellettuale e spirituale, imponeva al pubblico il
proprio gusto ed i propri stilemi chiamati, appunto, pittorialisti.
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Ecco che
alla definizione di cui sopra dovrebbero essere aggiunte le qualità della
stilizzazione e dell’idealizzazione. Con l’avvento del <Verismo> la fotografia
scoprì un’altra vocazione (mi piace qui ricordare lo scrittore verista Giovanni
Verga, le cui fotografie, poco conosciute oggi, documentano la condizione degli
umili, anticipando il realismo di Heine, dei fotografi americani del primo ‘900
fino al moderno fotogiornalismo).
Da quel momento le caratteristiche di
approssimazione, di simbolo, di riduzione diventano irrilevanti e si perdono
anche le qualità idealizzanti e stilizzanti, rendendo la definizione iniziale
assolutamente inadeguata, anzi, deviante.
Con il prepotente avvento dei media, (siamo
ai giorni nostri), la fotografia diventa patrimonio popolare. La prima
conseguenza di ciò è che oggi non è più l’elite intellettuale e dell’arte ad
imporre gusti estetici e stilemi, bensì la massa le cui capacità
percettive si plasmano sul gusto estetico più elementare, esigendo che la
fotografia soddisfi alle istanze di conoscenza immediata e superficiale della
realtà fenomenica e sociale, senza complicazioni di carattere concettuale,
stilistico, simbolico. La fotocamera tradizionale, nell’ambito della massa, è
sostituita dalle videocamera, più idonea a rappresentare il divenire degli
accadimenti e meno atta a promuovere la riflessione e la lettura critica.
Chiedersi - che cos’è una fotografia- è più
che mai condurre un esame della propria coscienza critica. Porsi il quesito del
perché una fotografia singola, in bianco e nero, spesso assume l’aura
dell’oggetto d’arte, vuol dire aver posto questa, istintivamente, a confronto
con le sequenze filmate o con le immagini di consumo, della moda, dei beni
acquistabili e delle mete turistiche che oggi ingombrano la nostra vita
quotidiana.
A fare la differenza tra i documenti unici
attraverso i quali i grandi fotografi hanno storicizzato gli eventi e le
attuali ridondanze iconografiche richieste da quell’enorme committenza che è la
massa, sono proprio le dimenticate caratteristiche del ridotto dell’ approssimato,
del circoscritto e del simbolico, che, nell’ottica della moderna
semiologia, possiamo oggi chiamare: peculiarità concettuali.
In definitiva, anche sul piano emozionale, c’è più
soddisfazione a realizzare ed a contemplare una fotografia che rappresenta il
momento culminante d’un evento dinamico, unico ed irripetibile (alla Cartier
Bresson) che non a perdersi nella visione passiva di un filmato iperdescrittivo
o di un reportage di costume.
Ecco come definirei la fotografia ideale al giorno
d’oggi: un simulacro di realtà od anche una sua traccia, istintivamente
ripresa sull’onda di un’emozione, che offra quel tanto di approssimato, di
simbolico, d’indefinito e di aperto alla libera interpretazione dei singoli
lettori. Un’interpretazione che non sia obbligatoriamente univoca bensì
soggettiva, adeguata alla sensibilità estetica ed ai diversi livelli
d’esperienza di ciascuno.”
Bressanone, maggio 2001
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