PREMESSA.(dopo aver letto le 16 domande formulate da Anna Maria Matone, Rigon scrive):
“……… io credevo di dover rispondere a domande finalizzate a rendere conto di un’esperienza fotografica ristretta alla mia visione edonistica della realtà, invece mi trovo ad affrontare aspetti della conoscenza che trascorrono dall’estetica all’etica del comportamento, dai rapporti tra Arte e Società alla psicologia di massa. Le tue domande possono dare l’avvio ad un trattato sull’interpretazione dell’universo in chiave fotografica ove la fotografia, appunto, è chiamata ad avocare a sé, in toto, le categorie estetiche che finora erano campo di speculazione dei Pensatori. Preoccupato, ma anche lusingato, da questa responsabilità che hai deciso di caricare sulle mie spalle, rispondo, punto per punto, adottando un ritmo discontinuo: glisserò sulle vicende autobiografiche e sugli aspetti tecnici, per approfondire ambiziosamente gli aspetti della materia estetica e del linguaggio fotografico.” (G. Rigon)
D. Giorgio Rigon, fotografo bianconerista, Maestro della Fotografia Italiana, insignito di più distinzioni dalla Federazion International de l’Art Photographique, Generale degli Alpini in pensione. La tua storia - quando hai cominciato? - La tua prima fotocamera - perché la scelta del bianco e nero? - una riflessione sulle motivazioni che da 50 anni ti spingono a fotografare.
R. Da giovane alpinista, usavo la fotocamera per documentare le mie prime arrampicate, poi, ho spostato decisamente il mio centro di interesse. Mio padre mi aveva regalato una “Pilot” del 1941, fotocamera reflex formato 4x6 cm. Non ne ho visto altri esemplari in mano ad alcuno; ricordo che era pubblicizzata sulla rivista “Signal”, durante l’alleanza militare nazi-fascista. Scelta obbligata, il bianco e nero, dal momento che. allora, il colore era riservato all’élite del professionismo, (io ero uno squattrinato studentello liceale).
D. La Camera Oscura - il fascino dello stampare in proprio ... Che cosa ha significato per te?
R. Fin dall’inizio, ho concepito la fotografia come un fatto creativo privato e personale, di cui essere gelosi ed il cui processo di produzione non poteva essere affidato ad altri.
La Camera Oscura, quindi, non la fotocamera era, per me, il vero centro di produzione delle immagini; alla fotocamera, in fondo, ero scarsamente affezionato, e lo sono tuttora. Gli ingranditori, invece, sono sempre stati al centro della mia attenzione, tanto da emanciparmi da quelli in commercio e da progettarne e costruirne di miei con soluzioni, anche cervellotiche, che ne aumentavano la versatilità. (uno dei 5 ingranditori progettati e costruiti con le proprie mani da Rigon, dotato di ampi basculaggi che rendono disinvolta la realizzazione di molte stilizzazioni).
D. Pensi che la professione militare svolta nella vita abbia inciso nel tuo modo di fare fotografia?
R.il mestiere di militare ha messo un salutare ordine nelle mie facoltà mentali, irresistibilmente orientate verso l’arbitrarietà e la trasgressione ad ogni norma. Non ha però inciso sul mio modo di fare fotografia, tant’è vero che, oggi, sciolto dai vincoli d’ordine professionale, mi concedo il gusto della provocazione, della violazione delle regole, proprio come quando ero ragazzo.
D. “Fotografia ... scrivere con la luce”. La luce, fattore indispensabile della produzione delle immagini, al pari del materiale sensibile e delle apparecchiature fotografiche - “il linguaggio fotografico”: un linguaggio espressivo non facile da proporre come Arte.
R. Nella tua domanda leghi il fattore luce al fattore linguaggio; sono istintivamente portato a sintetizzare i due fattori nella semplice locuzione linguaggio della luce. Di qui il dilemma se intervenire sulla luce, governandola a piacimento per adattarla al mio linguaggio, o accettare la luce così com’è e connettere il mio linguaggio all’alea del plein air. In termini concreti, il conflitto tra sala di posa e contesto naturale, tra fotografia di scena e fotografia della vita vera, tra artificio e realismo, tra predisposizione del soggetto e sua libera espressività. È chiaro che ci troviamo di fronte a due linguaggi diversi, dalle potenzialità paritetiche, ai fini dell’attribuzione del blasone di artistico. Personalmente coltivo il gusto della ripresa dalla vita reale, nei confronti di soggetti umani non predisposti, anzi inconsapevoli, per essere preciso, catturo furtivamente segni e sembianti dalla realtà violando la privacy e le recenti norme legislative a sua tutela. Ma passare subito a parlare di Arte è presuntuoso. Parliamo di artigianato, magari di alto profilo. Abbiamo l’umiltà di non etichettare come artistici i nostri lavori. D’altronde il primitivo artigiano che modellava la creta o scolpiva la pietra, per costruire suppellettili domestiche. non lo faceva per fare dell’Arte, la promozione nella categoria estetica di alcuni dei suoi lavori è avvenuta in epoche successive.
D. C’è un po’ di confusione tra le parole Fotografia e Immagine. Un chiarimento d’autore sarebbe gradito.
R. Il dato visivo che colpisce il nostro occhio diventa presto immagine, cioè simbolo fermo e immutabile di sé stesso, dal momento preciso che lo scegliamo e lo collochiamo nella nostra mente come esperienza individuale. Chiamerei immagine qualsiasi forma che, dalla fase di percezione, transita nella sfera della conoscenza. La percezione è immediata, nel senso che non si avvale d’intermediari; l’immagine, invece, è sempre mediata dalla psiche del recettore, o dell’autore nel caso della fotografia; mediazione cui si somma quella del mezzo tecnico che l’ha registrata (ottica, emulsione, filtri ecc.). Sotto questo aspetto, la fotografia è sempre un’immagine complessa, in quanto frutto di più mediazioni.
Quando diciamo, in senso metaforico, “dare un’immagine di sé”, ciò che viene offerto non è soltanto un’informazione di natura formale, i connotati trascendono il mero aspetto visuale per esplorare la psiche e persino l’assetto morale di un individuo. L’immagine fotografica aspira ad essere il più perfezionato e convincente veicolo di queste informazioni.
D. Un grande entusiasmo e un’inesauribile creatività caratterizzano il tuo iter artistico. La Fotografia come campo d’azione diretta e impulsiva per relazionarsi con la materia, senza mai abbandonare però l’intento di rappresentare il corpo umano. Quando è iniziata questa ricerca apparentemente incontrollata, una sorta di compromesso tra automatismo del gesto e intervento sulla materia da un lato, e fedeltà alla rappresentazione ed alla condizione dell’uomo, dall’altro?
R. L’entusiasmo è grande. E la creatività che, invece, non è inesauribile. La tua diagnosi sul mio modo di relazionarmi con la materia e, soprattutto, con la figura femminile, è esattissima, d’altronde è frutto di prolungate e intense conversazioni che abbiamo svolto insieme. Ricordo che, da circa 25 anni, non lavoro mai con soggetti predisposti, bensì mi pongo sempre in atteggiamento ricettivo nei confronti di ciò che spontaneamente avviene al mio cospetto. L’azione impulsiva dello scatto è provocata da un fatto emozionale, improvviso e fugace; ne ricavo un negativo ove il segno che mi interessa appare quasi sempre immerso e soffocato tra mille altri segni casuali che chiacchierano troppo; da qui comincia lo studio di quello che io già chiamo “il mio oggetto d’affezione”. Su quello mi concentro, in camera oscura, con le operazioni di isolamento, di parzializzazione, di stilizzazione; il dato visivo si trasforma, si spoglia di ciò che lo contorna; della realtà rimane spesso soltanto una pallida traccia cui cerco di conferire sempre una forma armonica, un’aura di grazia, di venustà; spero sempre che un atto gestuale, spontaneo e minore, possa assurgere ad espressione simbolica di un sentimento e che riveli il codice muto attraverso il quale il mio soggetto si svela e lancia messaggi.
Frammento di tenerezza.
Ha un senso tutto questo? Mi si dirà: “mistificazione per mistificazione, allora tanto vale dipingere o disegnare la linea armonica che hai in mente!”. Invece no! Difendo con forza la mia traccia di realtà ottenuta con il mezzo fotografico. Della mia iniziale visione immediata voglio che rimanga intatta l’essenza della forma, non voglio un’astrazione o un simulacro semplicemente ispirato da una visione reale. La visione mediata che voglio trasmettere ad altri deve conservare “l’odore della realtà”, pure dopo la trasposizione grafica o l’elaborazione; e questo nè il disegno nè la pittura me lo possono dare.
D. C’insegni che nello studio della vita sociale e delle sue rappresentazioni simboliche, dobbiamo considerare la presenza di ideologie, che non solo filtrano la realtà, rendendola diversa, ma offrono anche strumenti di manipolazione intellettuale. Una volta che c’impegniamo nell’analisi dettagliata dell’espressione artistica, come la fotografia, ci rendiamo conto che fare fotografia è un’azione diretta a trasformare il dato visivo (pensiamo al solo stravolgimento che provoca il bianco e nero), È vero? Ma per molti fotoamatori è difficile superare la visione ristretta della fotografia come strumento di rappresentazione. È possibile una crescita, in questo senso, per chi nella fotografia non riesce a vedere un viaggio alla ricerca del tutto e del niente e pure è insoddisfatto dei suoi risultati? E importante avere una filosofia alle spalle e come la si può attivare?
R. La domanda apre un campo sterminato di aspetti della conoscenza. La risposta, in questa sede, non può che essere riduttiva e, ricorrendo a semplificazioni e schematizzazioni, rischierò di ricondurre il problema al tema del linguaggio, luogo comune di cui spesso si parla con preconcetti mentali e con estrema vaghezza. Diamo per acquisito, da parte di ogni coscienza, che l’ideologia è alla base d’ogni scelta, conscia o inconscia, che il fotografo esercita sul soggetto. Si va dall’ideologia politica a quella edonistica, dalla speculazione filosofica a quella religiosa, fino ai più semplici e banali modi d’interpretare i moti della vita quotidiana. Qualsiasi ideologia, per manipolare le coscienze, fa un uso strumentale della fotografia, tuttavia oso affermare che, quanto più è evidente il divario tra il dato visivo ed il prodotto figurativo finale, tanto meno il messaggio proposto incide sulle coscienze. In modo consequenziale a questo principio, Marcuse osserva: “...Quanto più l’opera è immediatamente politica, tanto più essa indebolisce la forza dell’estraniamento e gli obiettivi trascendenti di rinnovamento radicale. In questo senso può esservi più potenziale sovversivo nelle liriche di Baudelaire e di Rimbaud che nel teatro didattico di Brecht”.
Vi è anche un altro principio nella “Teoria dell’Informazione” che dobbiamo tenere presente: “... l’alta frequenza degli elementi va a scapito della loro efficacia, e più il messaggio è prevedibile, minore è il tasso informativo. Pensiamo ai fotomontaggi anni ‘30 di Hartfield o agli accostamenti provocatori delle fotografie del “Borghese” anni ‘50, in fondo si trattava di strumenti abbastanza primitivi e rozzi per acquisire un consenso verso la parte proposta come “ideologicamente giusta”; l’effetto ottenuto per lo più attraverso sintesi binarie, si esauriva in un fugace sorriso d’ironia. Durante i conflitti bellici le parti avverse tendono ad acquisire il consenso proponendo immagini realistiche, realizzate con opportuna regia, che esaltano le virtù eroiche, umane, spirituali delle proprie forze, in contrapposizione a valori di meschinità, di codardia, d’opportunismo del nemico; questo tipo di propaganda è indirizzato alle masse e, come tale, suscita nelle classi più evolute un senso di disagio e di diffidenza. Quanto più convincenti, sul piano ideologico, le immagini spontanee scattate da chi vive le vicende belliche dal basso, in prima persona, magari senza conoscere perfettamente ciò che si agita sulla propria testa o gli eventi che si preparano.
Riflessioni di questo genere le abbiamo formulate nella serata dedicata ai “Simboli Contro” nei confronti del reportage di guerra ufficiale e di quello, involontario, ingenuo ma realistico dei semplici soldati.
|
Purtroppo gran parte dei fotoamatori, un po’ per ingenuità, un po’ perché vincolati ad esprimersi con poche, icastiche immagini di subitanea lettura, sono rimasti alla forma primitiva dell’espressività: quella di addensare il maggior numero di concetti forti ed evidenti, magari in una sola immagine che, in tal modo, rimane viziata da un alto tasso di artificiosità. A giustificazione la frustrazione del fotoamatore, c’è da dire che raramente egli è testimone di eventi talmente importanti da richiedere lo schieramento ideologico dei recettori da una parte piuttosto che dall’altra, così, non riuscendo a fotografare ciò che è importante, si limita a decretare importante ciò che fotografa, caricandolo di metafore e di accostamenti formali.
C’è da osservare, inoltre, che il fotoamatore non è aiutato neppure da quei modelli proposti, ad esempio, da Oliviero Toscani, metafore realizzate, esse pure, attraverso sintesi binarie di immediato e forte impatto, che non ammettono altemative all’univoco orientamento e che insistono su concetti già recepiti dalla coscienza comune.
Mi chiedi se è importante avere una filosofia alle spalle, per esprimere fotograficamente qualcosa di convincente sul piano ideologico; io dico di no. Approfondirei con particolare attenzione, piuttosto, quanto c’è stato proposto dal pensiero estetico di alcune post-avanguardie quale il Concept, il Pop, l’lperrealismo critico, le ambigue manifestazioni del Postmoderno, esperienze che pongono tutto in discussione, non danno nulla per certo, testimoniano gli attuali aspetti esistenziali con le loro contraddizioni, in modo acritico, lasciando ai recettori le considerazioni di ordine morale ed estetico.
D. I Workshops con gli esperti: esperienze di vita, occasioni per imparare qualche trucco, momenti di incontro, luoghi dove poter conoscere nuovi amici. Cos’è veramente un Workshop?
R. Nel Workshop è implicita l’idea dell’organizzazione didattica, della predisposizione ad un rituale immutabile. Inoltre l’esperto, anche quando non vuole, propone il modello della propria esperienza estetico-fotografica. Ben vengano i Workshops per quei principianti pigri che vogliono saltare tutte le fasi di studio in proprio della composizione, degli assetti armonici e, soprattutto, del pensiero estetico contemporaneo che sta alla base di ogni disciplina della comunicazione. Un occasionale coinvolgimento con l’esperto può sopperire solo in parte alle lacune di natura culturale.
Trovo assolutamente inutile assoggettarsi ad un’atmosfera dove “il maestro pilota” e la modella, ad esempio, “comanda lei” sulle posture del proprio corpo.
Sono invece convinto dell’efficacia dei Workshops di carattere tecnico, sulla pratica della camera oscura, ad esempio; questo perché non concepisco il fotoamatore che scatta e poi affida il proseguimento delle operazioni ad altri perdendo definitivamente il contatto affettuoso con le proprie immagini.
D. La fotografia istantanea: quasi un’avventura percorsa sopra una pellicola. La realtà da riprodurre per mezzo di impressioni o, semplicemente, un riferimento oggettivo del nostro quotidiano in un preciso momento?
R. Al concetto di istantaneo io aggiungo quello di furtivo, poiché, nella mia ricerca sull’umano, non voglio concordare con il soggetto qual è il momento migliore per l’istantanea; non m’interessa cogliere le alterazioni del soggetto di fronte alla mia decisione di riprenderlo ma coglierne, a sua insaputa, i tratti espressivi e la gestualità spontanei.
D. Dal ritratto, al reportage, alla natura morta, all’elaborazione, al paesaggio, i temi in fotografia diventano infiniti e infinite le interpretazioni, le letture. Ma oggi c’è il Digitale. E la domanda resta: “che tipo di fotografia è?”.
R, L’immagine digitale ha la stessa pregnanza espressiva dell’immagine fotografica tradizionale, sotto certi aspetti anche maggiore. Rimane da discutere sull’Aura, di Benjaminiana memoria, che, nell’immagine digitale, certamente è assente.
L’Aura è quell’insieme di fattori che si riferiscono all’unicità di un’opera, al pregio artigianale d’un manufatto, alla preziosità del supporto, alla stabilità nel tempo.
La fotografia, fin dalla nascita, è stata caratterizzata da due aspetti fatali:
- il manufatto fisico, dotato di elevato tasso di credibilità, da conservare quale testimonianza di un certo momento preciso della Storia, e che possiede comunque un’Aura;
- l’informazione iconografica di consumo, destinata alla divulgazione in virtù della sua riproducibilità illimitata e delle possibilità dei mezzi di comunicazione del momento.
Sotto l’aspetto 1), la stampa digitale non è un documento fotografico propriamente detto, bensì una riproduzione dall’Aura smarrita, analoga all’immagine tipo-litografica; sotto l’aspetto 2), il digitale è sì fotografia.
D. “L’Oggetto Trovato” e le tue esercitazioni al riguardo. Raccontaci che cosa fai e come nascono le opere, perché di opere si tratta, più che di fotografie; ognuna di esse, infatti, rappresenta e racconta una storia originale e perfettamente compiuta.
R. Quando si parla di “Oggetto Trovato” quasi tutti intendono oggetti inanimati, più o meno scelti e predisposti per la ripresa, magari come prosecuzione delle esperienze ricorrenti nelle avanguardie dei primi decenni del ‘900. Il mio “Oggetto Trovato”, invece, lo intendo sempre come una presenza umana, frammentata, che diventa simbolo di un piccolo fenomeno di vita attuale.
Quindi "Oggetto Trovato" come:-
attenzione a quanto accade attorno a noi in modo spontaneo, casuale ma che, comunque, abbia attinenza con i comportamenti dell’uomo;
- diffidenza per l’operare in ambiente predisposto: sala di posa, soggetto consapevole e consenziente, comunque organizzato a ricevere il nostro scatto;
- attenzione al frammento, alla gestualità minore, al movimento istintivo o automatico, al dettaglio significativo di un carattere, ad una parte per il tutto emblematica di un momento storico o, semplicemente, di un costume, d’una moda;
- fare assumere al dettaglio la dignità di un oggetto di affezione sul quale reiterare indefinitamente lo studio della forma “Gestalt” ed applicarvi il proprio stile. Per il raggiungimento di questa poetica, non è estraneo anche un processo di elaborazione in sede di stampa;
- diffidenza nei confronti del bozzetto arguto, del grazioso, del curioso che, caratterizzandosi immediatamente come tale, si esaurisce subito;
- dimenticare il contesto reale da dove l’oggetto trovato è stato “prelevato” e farlo assurgere a simbolo universale;
- evoluzione storica d’una poetica, iniziata nel secondo decennio del ‘900 con “Dada”, proseguita nella stagione del “Surreale”, poi in quella del “Concettuale”, del “Pop” e del “Postmoderno”;
- infine, visualizzazione monumentale di un “poco vedere” ingigantito che diventa figura retorica, sineddoche visiva, poetica del casuale.
D. Tabù, erotismo, etica, sono le parole chiave che idealmente ricorrono, con regolarità quasi ossessiva nelle tue opere (gli Ideogrammi, le Linee Armoniche, le Simbologie, i Calligrammi). Le fotografie sono erotiche e sensuali, pur ridotte a dettagli. È come se per te contassero solo istanti supremi; un mettere in scena immagini dite stesso, forse?
R. Qui emerge la mia inclinazione illimitata verso l’idealizzazione del femminile. Parto dal “Dolce StiI Novo”, inizio dalla donna angelicata, dalla Beatrice dantesca che, nel corso dell’elaborazione, si trasforma in frammenti della femminilità piena della Laura petrarchesca, per poi approdare alla sensualità della Fiammetta di Boccaccesca. Ma più spesso avviene l’inverso: sono le qualità di Fiammetta che mi colpiscono e, via via che il processo di idealizzazione si evolve, aspiro alla spiritualità di Beatrice. Questi tre miti letterari rappresentano insieme il patrimonio della donna ideale, non posso fare a meno di alcuno dei tre.
Certo, come dici tu, metto in scena me stesso e vorrei farlo sempre per nobilitare e sublimare gli istinti.
D. In virtù della tua lunga esperienza nelle giurie dei concorsi fotografici, quali sono i canoni con i quali giudichi una fotografia?
R. Nel giudicare le fotografie degli altri sento forte la responsabilità di valutare, con pari attenzione, ogni tipo di tendenza, ogni tipo di poetica. Inoltre, quando posso, cerco di promuovere un vero e proprio processo di empatia con il carattere e la sensibilità dell’autore. Rifiuto i canoni. Mi sforzo di capire se l’autore è sé stesso oppure è influenzato da modelli altrui. Non ho pregiudizi sui lavori eseguiti in sala di posa, ma li osservo con maggiore spirito critico poiché in essi non ammetto imperfezioni di carattere compositivo e formale. Così pure per i paesaggi e, in genere, per le figurazioni caratterizzate da staticità.
D. Il - Un giudizio.
R. I fotografi contemporanei, forse suggestionati dai grandiosi “environnements” o dalle
“installazioni” sempre più presenti negli spazi espositivi dell’arte contemporanea, non vogliono essere da meno: la loro produzione si fa grandiosa, articolata e complessa. Non sempre l’esigenza primaria è quella dello stile. Il ricorso al sistema complesso (racconto, sequenza, multivisione), obbliga il fotografo a maturare un proprio stile, laddove, nelle fotografie singole, l’autore può assorbire lo stile di altri e, quindi, continuare a coltivare tranquillamente la propria immaturità. Ma affinché la scelta espressiva si traduca in un’affermazione di stile, il fotografo deve imporsi un severo atteggiamento autocritico, avendo presente alcuni aspetti del meccanismo visivopercettivo.
Le moderne teorie sui meccanismi della percezione orientano tutte le forme della comunicazione verso “l’economia dei segni”. Tralascio altre considerazioni che, fin dal 1994, ho espresso nella conferenza “Fenomenologia del racconto-sequenza”, riportata, in stralcio in alcuni articoli, per concludere con un suggerimento di natura formale: Un sistema figurativo non è costituito dalla somma delle parti, ma il senso del tutto è immanente in ognuno dei suoi elementi costitutivi. Si tratta di dipanare un filo d’Arianna che ci conduca, lungo l’itinerario visuale, dall’inizio alla fine, un ideale collegamento tra le diverse immagini che ci faccia percepire l’intero sistema figurativo come un “unicum”.
Le singole figurazioni in cui si articola un sistema, dovrebbero essere di tipo aperto, caratterizzate, per lo più, da linee di forza centrifughe che indirizzano sguardo e tensione percettiva al di fuori d’ogni singola immagine, alla ricerca di collegamenti con le figure contermini.
Molte volte è il grado di incompletezza o di minore icasticità delle singole immagini a fornire la chiave per un collegamento ideale con le altre figure del complesso, quasi si sia invitati a ricercare quanto manca in un fotogramma, in quello successivo.
D. Gli amatori della fotografia e le mostre dei “Grandi” - un rapporto sempre difficile. Siamo un popolo che si deve ancora saziare di nuova arte e, per questo, non può bastare il fotoamatorialismo autodidatta. Che cosa consigli di fare?
R. Ci sono “Grandi” da guardare ed ammirare per la loro capacità di coinvolgerci nella conoscenza appassionata dell’Umanità e di informarci sul Mondo. Ci sono “Grandi” da guardare ed ammirare per l’afflato lirico e poetico che sanno trasfondere nelle loro composizioni.
Noi fotoamatori ci sentiamo annichiliti da entrambe le categorie dei “Grandi”. Cosa ammiriamo in loro? La capacità di Salgado di immedesimarsi nelle drammatiche condizioni di vita e di lavoro dell’uomo o la sottile, struggente umanità di Cartier Bresson? La dolcezza armonica dei nudi di Weston o la forte aggressività di quelli di Newton? L’apparente cinismo della Arbus, che poi si scopre essere disperato pessimismo, o la provocatoria indagine psico-sociologica degli autoritratti di Cindy Shermann?
Giusto che assimiliamo il patrimonio dei “Grandi”, ma questo patrimonio non è un repertorio di modelli; noi dobbiamo ricercare noi stessi, dobbiamo individuare, fra l’immensità di soggetti che si animano attorno a noi, i nostri particolari “oggetti di affezione”, non dobbiamo lavorare a tutto campo nella presunzione che se non va bene il paesaggio, c’è il ritratto, il quadretto di genere, il bello facile della sala di posa, la macro curiosa, il bozzettismo seducente dei viaggi nei paesi esotici, ecc.
Qualcosa di forte lo otteniamo approfondendo pochi temi a noi congeniali, magari uno soltanto, magari sempre lo stesso.
Annamaria Matone & Giorgio Rigon
Marzo, 1999
(*) pubblicata sul periodico “Obiettivo Riviera” n°60, marzo 1999.
|