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 G i o r g i o   R i g o n
L’ARBITRIO CREATIVO

    Nel codice della fotografia c’è anche la fatalità del “mezzo per fare arte”; e poiché fare arte com­porta l’esercizio di atti creativi che, comunque, producono astrazioni dalla realtà, il fotografo ha il diritto di scoprire in sé stesso il carisma della creatività, ha il dovere di coltivarlo nell’ambito di determinate teorie estetiche, ma gode anche del privilegio di potersi liberare di ogni convenzione linguistica, pur di realizzare le forme di una pro­pria irrealtà.
    Forse è per questo che la ricerca creativa del fotografo non raggiunge mai la compiutezza, non approda mai ad un risultato definitivo, è fatta di esperienze tendenti a... qualcosa, esercizi dell’intelligenza propedeutici ad altri esercizi, giuochi mai finiti. Le fotografie di ricerca non si espongono in modo permanente, rimangono vittime ansiose del loro stesso superamento.
    Il fotografo che vuol formalizzare, in senso creati­vo, le proprie visioni interiori sta ancora pagando, in termini di negazione di consenso da parte del pubblico, le conseguenze della distorta convinzione che “la fotografia è l’ancella delle arti”. Questo ruolo ancillare, definito nell’ottocento proprio dagli artisti che avevano paura di rimanere spiazzati dal nuovo artificio ottico-chimico, fece sì che la foto­grafia venisse usata quasi esclusivamente nei tradizionali scenari pittorici. “Il dilettante deve fare dell’arte e non trattare qualsiasi soggetto ma quei soggetti che parlano soltanto di arte e di sentimento”, scriveva nel 1896 un elzevirista sul “Bollettino dell’Associazione Amatori di Fotografia di Roma.”. Imperativi di questo genere furono la causa princi­pale del ritardo che ha avuto la fotografia nell’af­fermarsi come forma artistica autoctona. Nessuno, almeno fino all’inizio del nostro secolo, ebbe mai il coraggio di affrontare un serio dibattito sul tema “eteronomia e autonomia della raffigurazione foto­grafica”.
    Ci vollero produzioni disinvolte come quelle di Marcel Duchamp, di Moholy Nagy, di Man Ray per assimilare il mezzo fotografico agli altri strumenti dell’arte; come ci vollero i fertili, contrasti sul piano creativo di John Hartfield e di Raoul Hausmann, per far accettare il fotomontaggio tra i principali strumenti di comunicazione, di satira, di ironia, di propaganda. Ma soprattutto ci volle il moderno spirito d’oltre oceano, sviluppatosi duran­te quella lunga e non esaurita stagione che va sotto il nome di “Realismo Americano”, che, iniziatosi con la presa di coscienza dei valori autoctoni, tra­scorse dalla “Minimal art”, alla “Land art”, dall’ “Arte Concettuale” alla “Pop art”, all’ “Iperrealismo”, tutte esperienze grazie alle quali la fotografia entra oggi nel giuoco stimolante delle doppie e triple verità, capaci di annientare il vero­simile. Paradosso, contraddizione, sfida a volte feroce, a volta semplicemente ironica nei confronti della principale caratteristica della fotografia:
quella di essere considerata, dalla coscienza col­lettiva, il referente più scrupoloso della realtà.
    La tradizione culturale europea è certamente meno disinvolta di quella americana, la nostra mentalità, per esprimersi, ha sempre bisogno dell'appoggio rassicurante di qualche archetipo o di qualche teoria estetica ufficialmente riconosciuta che ci aiuti a sviluppare la creatività entro sistemi logici; così, al di fuori e al di sopra delle sempre piacevoli imitazioni di stilemi pittorici spesso chiamati “omaggi”, cito due principi dottrinali, scelti tra gli innumerevoli del pensiero estetico contemporaneo, che ci consentono di aprire prospettive nuove per il nostro fotografare creativo.
IL PRINCIPIO DELL'OPERA APERTA

    L’argomento Opera Aperta (o Indeterminatezza) è caro a Umberto Eco il quale, oltre a svilupparlo nella sintassi nel proprio linguaggio letterario, lo teorizza in alcuni saggi.



Nell’arte figurativa il concetto di opera aperta è implicito naturalmente nella produzione e nella fruizione di ogni opera, a cominciare dai graffiti trovati nelle caverne, dalle misteriose immagini di certi sepolcri, dai fascinosi oggetti sacrali a testimoniare, con la loro ambiguità e indeterminatezza, l’esigenza che ogni opera d’arte contenga un certo grado di apertura. Se dal XIV al XIX secolo l’accento si spostava sul polo della “definitezza” dell’opera, oggi lo sviluppo della sensibilità estetica e, insieme, la riscoperta delle poetiche primitive, hanno indirizzato gli artisti verso opere che si offrono ad una interpretazione libera, orientata solo nei tratti essenziali.
    Quella che al tempo di Dante era la poetica dell’al­legoria (per ogni figura un referente preciso), ha ceduto il posto al simbolismo moderno, ove notiamo come la suggestione simbolica non indirizzi ad un significato preciso bensì ad un alone o a un ventaglio di significati possibili, tutti imprecisi ed egualmente validi a seconda del grado di acutezza, di sensibilità e di disposizione sentimentale del fruitore.
    Assistiamo persino al singolare apparire di opere, anche in campo pubblicitario, la cui indetermina­tezza obbliga lo spettatore a concorrere al loro completamento, ad una sorta di partecipazione attiva senza la quale l’atto stesso dell’interpreta­zione non può dirsi compiuto.
    La fotografia, di per sé, nasce con la caratteristica della “definitezza” e della fedeltà al referente, il grado di apertura le può essere conferito, da parte di chi ha vocazione creativa, applicando diverse tecniche di “alterazione” in senso espressionistico, come l’elaborazione in sede di ripresa o di stampa, gli squilibri di natura formale, le violazioni alle leggi sia della prospettiva che delle proporzioni, il ricorso a forme simboliche, alle analogie ai contrasti.

IL PRINCIPIO DELL'ARBITRARIETÀ

    la nozione di “Arbitrarietà” è stata al centro degli studi da parte della Scuola di Praga con preciso riferimento al linguaggio parlato e scritto, ma può essere agevolmente trasferita nel linguaggio della fotografia, come a quello del teatro e del cinema. Nella “Teoria dell’Informazione” leggiamo:
il grado di un messaggio è tanto più intenso quanto maggiore è il suo tasso di imprevedibilità, in altri termini, quanto maggiore è il suo scarto dall’ovvietà”.
Il segno o codice quindi si mette in vista con lo “straniamento” cioè con lo “scarto dalla norma’ del raccontare piano, con sequenziale, quo­tidiano, banalizzato. Anche in fotografia quanto più pregnante e intensa è questa “arbitrarietà” tanto più poetica è l’opera, più singolare la compo­sizione.
    Ma attenzione! Il modo originale di violare la norma, individuato in un’opera, può facilmente tro­vare riscontri e analogie nei modi di violarla anche nelle altre. E’ necessario che ogni opera segni un modo diverso di scarto o di straniamento per distinguere ciò che, di volta in volta, nello stesso autore è originale da ciò che in lui è già divenuto maniera.     Teorie, Scuole, Principi quindi, strumenti dottrinali che, lungi dal liberare la fantasia, le impongono delle briglie, delle regole, poiché non basta stupire con la novità di certe costruzioni se queste non sono sorrette da un pensiero che ci riconduca ad una moderna concezione estetica.
    La creatività è ben diversa da qualsiasi forma di fantasia slegata da ogni concetto di logica, ha per­tanto delle sue regole ben definite, tali che la diffe­renziano sia dalle fantasticherie sia da ogni capric­cio di quella genialità che la critica idealistica e il gusto romantico associavano volentieri alla esal­tante sregolatezza.”
    Se si prendesse la creatività solo come sinonimo di novità, di audacia, si svuoterebbe inutilmente un concetto che, per quanto vago possa essere, ci aiuta a mettere a fuoco la Storia che non si vede (quella delle interne disposizioni del pensiero) da cui però dipenda, in gran parte, la Storia che si vede e quella che si vedrà quando le attuali avan­guardistiche tendenze dello spirito saranno assimi­late ed avranno dato i loro frutti.

Bressanone, novembre 1995