L’ARBITRIO CREATIVO
Nel codice della fotografia c’è anche la fatalità
del “mezzo per fare arte”; e poiché fare arte comporta l’esercizio di atti
creativi che, comunque, producono astrazioni dalla realtà, il fotografo ha il
diritto di scoprire in sé stesso il carisma della creatività, ha il dovere di
coltivarlo nell’ambito di determinate teorie estetiche, ma gode anche del
privilegio di potersi liberare di ogni convenzione linguistica, pur di
realizzare le forme di una propria irrealtà.
Forse è per questo che la ricerca
creativa del fotografo non raggiunge mai la compiutezza, non approda mai ad un
risultato definitivo, è fatta di esperienze tendenti a... qualcosa, esercizi
dell’intelligenza propedeutici ad altri esercizi, giuochi mai finiti. Le
fotografie di ricerca non si espongono in modo permanente, rimangono vittime
ansiose del loro stesso superamento.
Il fotografo che vuol formalizzare, in senso
creativo, le proprie visioni interiori sta ancora pagando, in termini di
negazione di consenso da parte del pubblico, le conseguenze della distorta
convinzione che “la fotografia è l’ancella delle arti”. Questo ruolo ancillare,
definito nell’ottocento proprio dagli artisti che avevano paura di rimanere
spiazzati dal nuovo artificio ottico-chimico, fece sì che la fotografia
venisse usata quasi esclusivamente nei tradizionali scenari pittorici. “Il
dilettante deve fare dell’arte e non trattare qualsiasi soggetto ma quei
soggetti che parlano soltanto di arte e di sentimento”, scriveva nel 1896 un
elzevirista sul “Bollettino dell’Associazione
Amatori di Fotografia di Roma.”. Imperativi di questo genere furono la causa
principale del ritardo che ha avuto la fotografia nell’affermarsi come forma
artistica autoctona. Nessuno, almeno fino all’inizio del nostro secolo, ebbe
mai il coraggio di affrontare un serio dibattito sul tema “eteronomia e
autonomia della raffigurazione fotografica”.
Ci vollero produzioni
disinvolte come quelle di Marcel Duchamp, di Moholy Nagy, di Man Ray per
assimilare il mezzo fotografico agli altri strumenti dell’arte; come ci vollero
i fertili, contrasti sul piano creativo di John Hartfield e di Raoul Hausmann,
per far accettare il fotomontaggio tra i principali strumenti di comunicazione,
di satira, di ironia, di propaganda. Ma soprattutto ci volle il moderno spirito
d’oltre oceano, sviluppatosi durante quella lunga e non esaurita stagione che
va sotto il nome di “Realismo Americano”, che, iniziatosi con la presa di
coscienza dei valori autoctoni, trascorse dalla “Minimal art”, alla “Land
art”, dall’ “Arte Concettuale” alla “Pop art”, all’ “Iperrealismo”, tutte
esperienze grazie alle quali la fotografia entra oggi nel giuoco stimolante
delle doppie e triple verità, capaci di annientare il verosimile. Paradosso,
contraddizione, sfida a volte feroce, a volta semplicemente ironica nei
confronti della principale caratteristica della fotografia:
quella di essere
considerata, dalla coscienza collettiva, il referente più scrupoloso della
realtà.
La tradizione culturale
europea è certamente meno disinvolta di quella americana, la nostra
mentalità, per
esprimersi, ha sempre bisogno dell'appoggio rassicurante di qualche archetipo
o di qualche teoria estetica ufficialmente riconosciuta che ci aiuti a
sviluppare la creatività entro sistemi logici; così, al di fuori e al di sopra
delle sempre piacevoli imitazioni di stilemi pittorici spesso chiamati
“omaggi”, cito due principi dottrinali, scelti tra gli innumerevoli del
pensiero estetico contemporaneo, che ci consentono di aprire prospettive nuove
per il nostro fotografare creativo.
IL PRINCIPIO DELL'OPERA APERTA
L’argomento Opera Aperta
(o Indeterminatezza) è caro a Umberto Eco il quale, oltre a svilupparlo nella
sintassi nel proprio linguaggio letterario, lo teorizza in alcuni saggi.
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Nell’arte figurativa il
concetto di opera aperta è implicito naturalmente nella produzione e nella
fruizione di ogni opera, a cominciare dai graffiti trovati nelle caverne, dalle
misteriose immagini di certi sepolcri, dai fascinosi oggetti sacrali a
testimoniare, con la loro ambiguità e indeterminatezza, l’esigenza che ogni
opera d’arte contenga un certo grado di apertura. Se dal XIV al XIX secolo
l’accento si spostava sul polo della “definitezza” dell’opera, oggi lo sviluppo
della sensibilità estetica e, insieme, la riscoperta delle poetiche primitive,
hanno indirizzato gli artisti verso opere che si offrono ad una interpretazione
libera, orientata solo nei tratti essenziali.
Quella che al tempo di
Dante era la poetica dell’allegoria (per ogni figura un referente preciso), ha
ceduto il posto al simbolismo moderno, ove notiamo come la suggestione
simbolica non indirizzi ad un significato preciso bensì ad un alone o a un
ventaglio di significati possibili, tutti imprecisi ed egualmente validi a
seconda del grado di acutezza, di sensibilità e di disposizione sentimentale
del fruitore.
Assistiamo persino al
singolare apparire di opere, anche in campo pubblicitario, la cui indeterminatezza
obbliga lo spettatore a concorrere al loro completamento, ad una sorta di
partecipazione attiva senza la quale l’atto stesso dell’interpretazione non
può dirsi compiuto.
La fotografia, di per
sé, nasce con la caratteristica della “definitezza” e della fedeltà al
referente, il grado di apertura le può essere conferito, da parte di chi ha
vocazione creativa, applicando diverse tecniche di “alterazione” in senso espressionistico,
come l’elaborazione in sede di ripresa o di stampa, gli squilibri di natura
formale, le violazioni alle leggi sia della prospettiva che delle proporzioni,
il ricorso a forme simboliche, alle analogie ai contrasti.
IL PRINCIPIO DELL'ARBITRARIETÀ
la nozione di “Arbitrarietà” è stata al centro degli studi da parte della
Scuola di Praga con
preciso riferimento al linguaggio parlato e scritto, ma può essere agevolmente
trasferita nel linguaggio della fotografia, come a quello del teatro e del
cinema. Nella “Teoria dell’Informazione” leggiamo: il grado di un messaggio
è tanto più intenso quanto maggiore è il suo tasso di imprevedibilità, in altri
termini, quanto maggiore è il suo scarto dall’ovvietà”. Il segno o
codice quindi si mette in vista con lo “straniamento” cioè con lo “scarto dalla
norma’ del raccontare piano, con sequenziale, quotidiano, banalizzato. Anche
in fotografia quanto più pregnante e intensa è questa “arbitrarietà” tanto più
poetica è l’opera, più singolare la composizione.
Ma attenzione! Il modo
originale di violare la norma, individuato in un’opera, può facilmente trovare
riscontri e analogie nei modi di violarla anche nelle altre. E’ necessario che
ogni opera segni un modo diverso di scarto o di straniamento per distinguere
ciò che, di volta in volta, nello stesso autore è originale da ciò che in lui è
già divenuto maniera.
Teorie, Scuole, Principi
quindi, strumenti dottrinali che, lungi dal liberare la fantasia, le impongono
delle briglie, delle regole, poiché non basta stupire con la novità di certe
costruzioni se queste non sono sorrette da un pensiero che ci riconduca ad una
moderna concezione estetica.
La creatività è ben
diversa da qualsiasi forma di fantasia slegata da ogni concetto di logica, ha
pertanto delle sue regole ben definite, tali che la differenziano sia dalle
fantasticherie sia da ogni capriccio di quella genialità che la critica
idealistica e il gusto romantico associavano volentieri alla esaltante
sregolatezza.”
Se si prendesse la
creatività solo come sinonimo di novità, di audacia, si svuoterebbe inutilmente
un concetto che, per quanto vago possa essere, ci aiuta a mettere a fuoco la
Storia che non si vede
(quella delle interne
disposizioni del pensiero) da cui però dipenda, in gran parte, la Storia che si
vede e quella che si vedrà quando le attuali avanguardistiche tendenze dello
spirito saranno assimilate ed avranno dato i loro frutti.
Bressanone, novembre 1995
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